mercoledì 30 novembre 2011

Un Mondo Senza Pesci.


“L’estensione dell’oceano è talmente grande che esso soddisfa ogni possibile uso da parte delle genti per trarne acqua, per pescare, per navigare”

Da “Mare Liberum” di Hugo Grotius, filosofo Olandese (1583-1645).

Fu questa presunzione, tipicamente umana, che, se pur nel 1625 poteva avere senso, per un livello di pesca ancora relativamente basso, nel corso dei secoli, con l’aumento vertiginoso della popolazione mondiale, delle sue esigenze e dei sistemi tecnologici sempre più avanzati, ci ha portato al preoccupante quadro che oggi ci propone la FAO in relazione all’impatto della pesca di professione sull’ecologia, conducendo alla quasi certezza d’estinzione di molte specie e ad un graduale ed inesorabile impoverimento delle risorse faunistiche acquatiche.

Il concetto “Ogni individuo considera soltanto la propria sicurezza, soltanto il proprio guadagno..” (La ricchezza delle Nazioni, 1776 di Adam Smith) era probabilmente il quadro d’insieme che giustificava (e giustifica), il sistematico e crescente sviluppo del saccheggio dei mari e delle acque interne a danno della fauna ittica: come specie consumiamo risorse, abbiamo bisogno di sicurezza e sostegno, e ad oggi, il progresso tecnologico applicato alla pesca di professione, si è spinto solo a cercare sistemi sempre più catturanti e mai conservativi in un ottica di sostenibilità.

Delle 15 principali regioni del mondo ricche di fauna acquatica e idonee alla pesca, quattro sono devastate e nove in via di esaurimento: questo è lo spietato quadro, realistico e drammatico che la FAO presenta su questa crisi planetaria e ne indica le cause dirette nell’eccessivo sfruttamento delle risorse ittiche da parte delle industrie della pesca.

Qual è la portata? Dai 18 milioni e mezzo di tonnellate di pesce del 1952 si passati a 89 milioni di tonnellate alla fine degli anni ’80: la tendenza nel 2011 è in aumento…. 

La concorrenza commerciale ha portato le industrie ittiche ad aumentare il volume di pesca a scapito della specificità, utilizzando attrezzature non selettive che provocano la morte di molte specie che non sono neppure commestibili: coralli, alghe, molluschi, crostacei e pesci, alterando l'habitat oltre all'impoverimento diretto della fauna ittica. 

La FAO ha annunciato che, se questa situazione persiste, presto i prodotti del mare non saranno sufficienti per il consumo dell’uomo, quindi  oltre ad aver devastato irreparabilmente e cancellato intere specie, l'epilogo inquietante, sarà alla fine “la fame”, soprattutto per i milioni di persone che abitano sulle coste e la cui principale fonte di proteine è proprio il pesce.

E in Italia? Prima degli anni 50, il mare era visto come risorsa inesauribile,  mentre a partire dagli anni 80 la risorsa ittica è in crisi, e ciò anche grazie al contributo dato nel Mediterraneo che nel 1999 fa registrare a livello mondiale oltre 110 milioni di sbarcato globale (fonte “Sfruttamento delle risorse ittiche” di Alberto Barausse) come somma di tutto ciò che viene sottratto alle acque comuni.

La prospettiva quindi è che, se non si frenerà in qualche modo questo massacro sistematico, questa corsa al saccheggio, le abitudini e le tradizioni alimentari e lo sfruttamento industriale della risorsa ittica, basterebbe mantenere i ritmi attuali (che in realtà sono in aumento) per far in modo che si estinguano la maggior parte delle specie oggi oggetto di pesca e ridurre di oltre il 50% la biomassa ittica mondiale nel 2048 (fonte The End of the Line, di Rupert Murray 2009).

Ma se il mare, l'oceano, è tanto grande da occupare la maggior porzione del pianeta e la nostra specie lo stà esaurendo della fauna, cosa accade nelle acque interne, ed in particolare nella piccolissima porzione, rispetto al globo terracqueo, delle acque dolci italiane...

Ogni mese province sempre meno sensibili alla tutela conservativa degli stock ittici, inneggiando alla tradizione culinaria, al patrimonio elettorale, alla necessità di soddisfare una richiesta economica da colmare con un offerta politica, rilasciano sempre più licenze di pesca professionale, ed oggi assistiamo alla legalizzazione delle più famigerate squadre di bracconieri industriali, che vengono premiate e graziate con la concessione di licenze professionali.

A rendere ancor più atroce quest'incubo, mentre in mare, ai sensi dell' art. 21 del decreto assessoriale difesa dell'ambiente 412/95, è necessaria la comunicazione mensile dei dati relativi alla quantita' di pescato, giornate e zone di pesca (e si stabilisce un limite stagionale), in acque interne ciò non è dovuto, quindi non esiste nessun limite alla devastazione che ogni singolo operatore può generare: il mare, immenso ha un limite di legge, le acque dolci, tremendamente più piccole, non lo hanno... 

170 nazioni mediante una serie di colloqui promossi dalla FAO hanno adottato il 31 Ottobre 1995, il “Codice per la pesca responsabile”, per gestire in modo più razionale, responsabile e sostenibile la pesca in mare, in Italia invece nelle acque interne la pesca di professione è regolata ancora con il testo unico delle leggi sulla pesca (R. D. 8 ottobre 1931 n. 1604) e la paradossale  Legge 14 luglio 1965 n. 963 (attuazione del  D. P. R. 2 ottobre 1968 n. 1639, che leva ogni potere d'intervento al Ministero dell'Ambiente.

Quindi se la pesca di professione marittima, è mondialmente indicata come una delle principali cause dirette di disastro ambientale, quella nelle nostre acque interne cos'è?

E' un qualcosa che non ha niente da vedere con una corretta gestione delle risorse, un qualcosa che risponde esclusivamente a logiche di carattere economico.

L'elemento a me più sconcertante, non è solo il suo sommarsi al bracconaggio, all'inquinamento, all'alterazione degli habitat, tutti elementi che concorrono e si sommano al panorama nefasto che minaccia la fauna ittica, ma che esiste e sopravvive ancora una categoria di pescatori sportivi  che giustifica la pesca di professione.

Perchè la giustifica? Che vantaggio ne trae? Perchè per alcuni, tutto ciò che oggi sopravvive negli areali piagati dalla pesca di professione, non c'è nulla che meriti di essere salvato, quindi ben venga ogni sistema di distruzione che cancelli ciò che sopravvive per poi sostituirlo: e mentre aspettano il “miracolo”, tutto, indiscriminatamente, alloctoni e autoctoni, specie nocive e rari endemismi, pesci di pregio e non, ogni tipo di specie muore e viene venduta in modo assolutamente non selettivo, privo di ogni tipo di controllo e destinata ad espandersi per mantenere lo stesso margine di guadagno sempre.

Tempo fa, in molti ambienti della pesca sportiva, si sperava che invecchiati (o morti..) “gli irriducibili”  possessori di rete e licenza di tipo A, l'assenza di un ricambio generazionale avrebbe mitigato questo scempio: oggi invece con l'apparire di intere comunità di stranieri residenti in Italia questa speranza e scomparsa, specie ora che asiatici ed europei dell'est richiedono ed ottengono, con soli 40 euro l'anno di tasse, l'autorizzazione per saccheggiare una risorsa che le nostre amministrazioni non hanno saputo valorizzare. 

Io “un mondo senza pesci” non voglio immaginarlo, e scartata l'ipotesi di cedere le armi a chi ingrassa con il “diritto alla pesca”, vissuto come una giustificazione opportunistica, posso oggi battermi per l'applicazione di un “Codice per la pesca responsabile”  applicabile anche alla pesca di professione in acque interne e perchè la gestione delle autorizzazioni ad esercitarla torni ad una sovra struttura Ministeriale, anziché lasciare il campo libero a politici di provincia che con troppa facilità, superficialità ed interesse, permettono ancora a questo male di nuocere.

Gianluca Milillo.

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